Category Archives: Storie di Uomini di Cavalli

Cavaliere o Cavalleggero

Scese da cavallo furioso, il piccolo rettangolo in sabbia ricavato sulla sponda verde della collina era stato il ring di un piccolo dramma fra un giovane cavaliere e il suo guizzante stallone arabo grigio di manto. Non si erano capiti, lui costruiva una postura da “spalla in dentro” con il busto leggermente flesso all’interno e le anche mobili dritte sulla pista, mentre il cavallo opponeva resistenza in un misto di fuga e rigidità che poco aveva a che fare con l’equitazione. Quel pomeriggio si erano innervositi più volte nella reciproca incomprensione, nella reciproca indomita, superficiale giovinezza.

– Sono furioso –

Sibilò a denti stretti incrociando lo sguardo del suo maestro mentre tornava cavallo alla mano.

– É colpa sua! Hai visto come non ragionava oggi? Io gli chiedevo le cose ma lui niente o aveva troppa fretta o proprio non mi stava ad ascoltare! –

Carlos li guardava entrambi, splendidi giovani esemplari delle rispettive razze, alle prese con i loro sentieri evolutivi, nello sforzo reciproco di crescita, così come il cosmo dispone.

– Però tu ti sei innervosito per primo –

Disse con voce pacata.

– Sì ma l’hai visto! Lo faceva apposta appena la mia pretesa saliva, lui  si metteva contro, chiunque avrebbe perso la pazienza: lo sai mi piace Ares ma quando fa così lo sbranerei!

Carlos continuò con lo stesso tono di voce come se non lo avesse sentito.

– Finché rimarrai convinto che i tuoi stati d’animo, le tue emozioni, i tuoi pensieri possano essere “colpa” o “merito” di qualcosa o qualcuno vivrai  in preda al sortilegio e non sarai in grado di risvegliarti, ipnotizzato dal pensiero magico che qualcosa all’esterno possa influire sulla tua interiorità. Quando sei convinto che questo avvenga é soltanto perché ciò che si agita fuori rispecchia ciò che si agita dentro di te –

Bruno non capì ciò che il maestro gli aveva detto ma le sue parole lo avevano calmato, pacificato, le dita che stringevano la briglia si erano ammorbidite e il cavallo alle sue spalle con un lungo sospiro abbassò la testa in segno di pace.

– Cosa vuoi dirmi? –

– Voglio dirti che non è mai “colpa” del cavallo, il primo a mettersi in gioco, a prendersi le responsabilità devi essere tu se vuoi diventare “Cavaliere”, fino a quando delegherai la riuscita al solo cavallo resterai sempre e solo un “Cavalleggero” un ippotrasportato della vita –

Ora che il discorso si era fatto  più comprensibile Bruno fu scosso da un brivido: trasportato dalla vita, agito dal cosmo,  guardò allora il suo maestro da sotto le ciglia a metà fra il ringraziamento e la rabbia e sia avviò verso la scuderia con Ares al suo fianco visibilmente compiaciuto.

Riccardo Maria Bruno

Intervista con lo Sciamano

Fin da bambino ho sempre avuto un rapporto particolare con la febbre. Quando vivevamo in Africa per ben cinque volte presi la malaria unico della famiglia come se la febbre venisse a cercare proprio me… Ricordo la faccia stravolta di mia madre mentre guardava il termometro riempirsidi mercurio fino in cima, dopo i 42 gradi ribaltavo gli occhi e venivo immerso per intero nella vasca da bagno di casa colma d’acqua fredda.

Con 40 di febbre stavo bene, gli occhi scintillanti e la mente sgombra, mi sentivo come sotto l’effetto di una droga potente e sconosciuta, le mie vene erano  torrenti di lava fusa e i miei pensieri, liberi dalla materia, si facevano sottili e imprevedibili. L’anima nera dell’Africa profonda ardeva nel mio giovane corpo. Quando mi capitava di essere preda del delirio era come se non fossi più presente, come se l’anima uscisse dal corpo rovente, per lo sbigottimento di mamma al mio capezzale.

La malaria presa in Africa per un bianco non é quasi mai cosa pericolosa, abbiamo clorochina e chinino e spesso si tratta di qualche giorno a letto con gli stessi sintomi di una forte influenza. A me la malaria aveva lasciato una sensibilità e una sopportazione eccezionali per le alte temperature nonché alcune esperienze alle quali, essendo stato all’epoca poco più che bambino, non avrei saputo che nome dare.

Da più grande mi resi conto che gli episodi febbrili erano momenti eletti dell’esistenza, spazi asestanti nel normale fluire vitale, voragini d’assenza lucida, occasioni di contatto con mondi invisibili agli occhi quotidiani. Non mi vergogno a dire che cercavo la febbre ma ogni volta, quando il momento si faceva propizio, era lei a trovare me.

Dietro il cristallo del camion il sole novembrino del deserto amplificava i suoi raggi come dietro ad una lente d’ingrandimento. Per tutto il giorno avevamo combattuto con le salite e le discese di una montagna decisa a non lasciar spazio all’orizzonte, dopo dieci ore di guida la valle del Ziz apparve come una profonda ruga verde e sinuosa sulla faccia scarna del deserto.

Trovammo rifugio fra le palme, nel cortile di una piccola casa per metà ancora di fango, un alto muro screpolato la separava dalla strada, dal lato opposto un giardino con ceste di fichi datteri appesi come gocce succulente, piccoli orti umidi e odorosi, rigagnoli d’acqua festosi, ed un asino scalcinato certo più fortunato di quelli che pascolano la polvere del deserto.

La sera venne rapide sulla nostra stanchezza, il padrone di casa era nero come la notte, i sui denti gioviali scintillavano fra un sorriso e un francese stentato, ci offri il thé che bevvemmo seduti su sudice sedie di plastica bianche mentre la testa già mi pareva leggera, troppo leggera, mi vidi riflesso negli occhi antigravitazionali di Marlene e fui costretto da un brivido profondo a mettermi a letto.

Il camper era caldissimo ma io tremavo come una foglia, la notte era un buco nero, le stelle scintillavano senza pudore, il deserto si richiudeva su di noi con enormi fauci di pietra, la febbre mi ringhiva addosso come un cane feroce poi alle tre esatte del mattino lo vidi. Era un uomo di una vecchiaia indefinibile, senza tempo, appena cominciò a parlare io smisi di tremare e la sua voce mi parve familiare.
  – Ti sei preso il mal d’Africa figlio mio, lo prendono tutti quelli che vengono in questa terra senza aver lasciato ciò che avevamo in quell’altra, tutti quelli che viaggiano troppo pesanti…
Parlava adagio in una lingua sconosciuta ma che capivo benissimo e anche il senso delle sue parole era chiaro come se sapessi esattamente a cosa si stesse riferendo.
Mi raccontò la storia della mia vita, mi disse che non era la prima volta che ci incontravamo e che da bambino lo visitavo spesso, mi raccontò la storia degli uomini sul nostro pianeta e mi parve uguale alla mia, così non fui più capace a distinguere i soggetti del racconto, le sue fasi temporali il chi e il quando dei fatti, tutto si era fatto fluido interconnesso, continuo.
Poi il mio corpo ebbe una scossa potente di febbre che mi riporto nel camper, per un attimo vidi il volto stravolto di Marlene e mi preoccupai moltissimo, pensai che stesse guardando il mio corpo morto.
  – Ti prego aiutami! – ansimai allora rivolto allo shamano.
  Il vecchio mi si fece vicinissimo
  – Ora ti darò una ricetta che dovrai seguire scrupolosamente, comincia con un digiuno di quaranta giorni e durante questo digiuno…..
Cominciò a dettarmi un protocollo complicato di tisane, decotti e pratiche per ogni giorno del lungo difiuno, poi ripeteva
  – fai tutto esattamente come ti dico! Mi racconti altrimenti non ti sveglerai! –

Ero teso e ansioso, dovevo ricordarmi un mucchio di pratiche e preparazioni a orari ben precisi: la coda cavallina, il fieno greco, gli impacchi di argilla, il kefir, non conoscevo nulla di tutto ciò e le convulsioni mi presero nuovamente.

Sentii allora una voce lontana, come quelle che senti giù in strada quando nelle torride notti d’estate dormi con le finestre aperte, una voce dolce ma nello stesso tempo insistente – Amore svegliati, ti prego svegliati! – Aprìi gli occhi e incontrai il viso stremato di Marlene, fuori dal camper albeggiava, ero tornato, della febbre che per tutta notte mi aveva scosso come un fuscello neanche l’ombra, ero tornato ma n CZon avevo fatto in tempo a ricevere l’intera ricetta, guardai nuovamente Marlene ero furioso, le dissi stizzito che avrei dovito riaddormentarmi, che avevo perso l’ultima e più importante parte della ricetta, che non avrei mai più avuto l’occasione di conoscere; lei mi abbracciò, noncurante delle mie rimostranze mi baciò con dolcezza –  me non importa amore mio, non mi importa dove tu sia stato questa notte, a me importa solo che tu ora sia tornato qui ho avuto una fottuta paura di perderti! –

Riccardo Maria Bruno

Un amore difficile

La Lombardia e’ una regione stuprata, una terra di nessuno, un’enorme crosta di cemento e cavi dell’alta tensione. Nessuno più posa i piedi su questa terra, la si attraversa solo su gomma passando da un carcere di luci al neon ad un loculo con letto e bagno, questa terra non è più terra, non appartiene più al cuore di nessuno e per uniformarsi diventa grigia come l’asfalto, anche il cielo è una cappa di piombo fuso.

Grazia è  innamorata  del suo cavallone tedesco, gigante ed emotivo almeno quanto lei. Sono abbandonati in questo costoso carcere di periferia, entrambi vedono la luce nel breve tratto fra il maneggio coperto e la scuderia, il loro è un matrimonio infelice dove la voglia di stare insieme e’ soffocata dalle incomprensioni e da un ambiente sterile per l’amore: le sbarre di un box, il buio di un capannone, una ruota che gira dove il cavallo criceto inebetisce gli arti e la mente. A nessuno conviene vederli, il loro doloroso rapporto è invisibile, nessuno li aiuta, la loro felicità non è redditizia.

Allora Grazia monta il suo enorme criceto sauro attaccata alle redini come se non ci fosse un domani, rannicchiata come se un pericolo spaventoso volesse strapparle il cuore, ad ogni battuta di trotto un piccolo pezzo di cuore, mentre tutto intorno esplode la guerra. Il gigante ha paura di cadere in avanti, ha paura di cadere per sempre, anche lui ha un nobile cuore da proteggere, nessuno dei due respira come se il dramma fosse imminente ed in apnea non si può far binomio.

Arriva un piccolo uomo da lontano, come tutti ha attraversato la terra sulla sua scatoletta a motore; la tangenziale e’ una discarica a cielo aperto, per arrivare al maneggio si fa slalom fra il pattume e le nutrie morte, sembra di attraversare la fine del mondo quando la guerra ci inghiottirà tutti.
La compagna dello straniero ha occhi e stivali grandi, si tengono per mano, a loro piace vedere non guardare e questo amore disperato balza subito agli occhi. Allora l’omino, incurante del bombardamento, si posiziona al centro del rettangolo (la sabbia le pareti e il soffitto sono grigio scuro) tiene in mano un frustino con l’anima d’argento ne è geloso come se fosse il custode di tutti i suoi segreti.

“Pensa al centro del tuo corpo, espandilo come se questo spazio non avesse pareti, lascia che il tuo calore attraversi il tuo cavallo, dai fiducia al vostro amore, lascia andare le redini!”.

Grazia sente di potersi lasciare andare (quel frustino d’argento é una bacchetta magica e le parole dell’omino un sortilegio) allora schiude le spalle, allunga le gambe fuori dalle staffe, solleva lo sguardo, apre il suo corpo come se sotto quelle lamiere fosse arrivata la primavera, percepisce di star respirando e un sorriso proveniente da chissà quale profondità le illumina il viso mentre il dolcissimo gigante sauro comincia a masticare.

Riccardo M. Bruno