Fin da bambino ho sempre avuto un rapporto particolare con la febbre. Quando vivevamo in Africa per ben cinque volte presi la malaria unico della famiglia come se la febbre venisse a cercare proprio me… Ricordo la faccia stravolta di mia madre mentre guardava il termometro riempirsidi mercurio fino in cima, dopo i 42 gradi ribaltavo gli occhi e venivo immerso per intero nella vasca da bagno di casa colma d’acqua fredda.
Con 40 di febbre stavo bene, gli occhi scintillanti e la mente sgombra, mi sentivo come sotto l’effetto di una droga potente e sconosciuta, le mie vene erano torrenti di lava fusa e i miei pensieri, liberi dalla materia, si facevano sottili e imprevedibili. L’anima nera dell’Africa profonda ardeva nel mio giovane corpo. Quando mi capitava di essere preda del delirio era come se non fossi più presente, come se l’anima uscisse dal corpo rovente, per lo sbigottimento di mamma al mio capezzale.
La malaria presa in Africa per un bianco non é quasi mai cosa pericolosa, abbiamo clorochina e chinino e spesso si tratta di qualche giorno a letto con gli stessi sintomi di una forte influenza. A me la malaria aveva lasciato una sensibilità e una sopportazione eccezionali per le alte temperature nonché alcune esperienze alle quali, essendo stato all’epoca poco più che bambino, non avrei saputo che nome dare.
Da più grande mi resi conto che gli episodi febbrili erano momenti eletti dell’esistenza, spazi asestanti nel normale fluire vitale, voragini d’assenza lucida, occasioni di contatto con mondi invisibili agli occhi quotidiani. Non mi vergogno a dire che cercavo la febbre ma ogni volta, quando il momento si faceva propizio, era lei a trovare me.
Dietro il cristallo del camion il sole novembrino del deserto amplificava i suoi raggi come dietro ad una lente d’ingrandimento. Per tutto il giorno avevamo combattuto con le salite e le discese di una montagna decisa a non lasciar spazio all’orizzonte, dopo dieci ore di guida la valle del Ziz apparve come una profonda ruga verde e sinuosa sulla faccia scarna del deserto.
Trovammo rifugio fra le palme, nel cortile di una piccola casa per metà ancora di fango, un alto muro screpolato la separava dalla strada, dal lato opposto un giardino con ceste di fichi datteri appesi come gocce succulente, piccoli orti umidi e odorosi, rigagnoli d’acqua festosi, ed un asino scalcinato certo più fortunato di quelli che pascolano la polvere del deserto.
La sera venne rapide sulla nostra stanchezza, il padrone di casa era nero come la notte, i sui denti gioviali scintillavano fra un sorriso e un francese stentato, ci offri il thé che bevvemmo seduti su sudice sedie di plastica bianche mentre la testa già mi pareva leggera, troppo leggera, mi vidi riflesso negli occhi antigravitazionali di Marlene e fui costretto da un brivido profondo a mettermi a letto.
Ero teso e ansioso, dovevo ricordarmi un mucchio di pratiche e preparazioni a orari ben precisi: la coda cavallina, il fieno greco, gli impacchi di argilla, il kefir, non conoscevo nulla di tutto ciò e le convulsioni mi presero nuovamente.
Sentii allora una voce lontana, come quelle che senti giù in strada quando nelle torride notti d’estate dormi con le finestre aperte, una voce dolce ma nello stesso tempo insistente – Amore svegliati, ti prego svegliati! – Aprìi gli occhi e incontrai il viso stremato di Marlene, fuori dal camper albeggiava, ero tornato, della febbre che per tutta notte mi aveva scosso come un fuscello neanche l’ombra, ero tornato ma n CZon avevo fatto in tempo a ricevere l’intera ricetta, guardai nuovamente Marlene ero furioso, le dissi stizzito che avrei dovito riaddormentarmi, che avevo perso l’ultima e più importante parte della ricetta, che non avrei mai più avuto l’occasione di conoscere; lei mi abbracciò, noncurante delle mie rimostranze mi baciò con dolcezza – me non importa amore mio, non mi importa dove tu sia stato questa notte, a me importa solo che tu ora sia tornato qui ho avuto una fottuta paura di perderti! –