Funghi fritti e gli elementi del disastro

Come si scrive l’ultimo capitolo di una così bella storia?
Si ammassano talmente tante emozioni che la mente si confonde e le dita si bloccano. Ci siamo lasciati con la comitiva della Lungavia ferma all’allenamento Baticci e posto migliore non si poteva trovare. I cavalli sono comodi in un recinto proprio accanto alla casina di pietra dove siamo alloggiati noi, acqua, erba fresca e un bel rotolone di medica tanto per non farci mancare nulla. I padroni di casa Loriana e Omero ci trattano come se fossimo amici da sempre e ci invitano a cenare con loro; intorno al lungo tavolo di legno ci sono anche “i vecchi” di casa, l’atmosfera è dolce e conviviale. Lori cucina ogni tipo di prelibatezza e la conversazione tratteggia antichi paesaggi contadini fatti di bestiame, duro lavoro e una cultura della terra e degli animali che sta svanendo, così come i suoi ultimi detentori. Ci sembra di prendere parte ad un banchetto antico, il tavolo è ingombro di libagioni e tutto è rigorosamente fatto in casa, tagliatelle al ragù, stufato di cinghiale, di capriolo, cotolette di maiale, formaggio, verdure e funghi, tanti funghi, preparati in tutti i modi. Ci alziamo solo quando riesco finalmente ad avere la meglio sul tegame di capriolo e  un vassoietto di zucca a dadini  preparata all’aceto come non l’avevo mai mangiata.


E intanto penso alle mucche con le quali Nevio tirava il carro, penso alla mungitrice-robot, vanto oggi dell’azienda, penso alla forza tutta femminile di Loriana, all’infaticabile Omero e a quanto sia tenero con suo figlio Simone, e penso alla profondità dolce ed umana di questo incontro, cosa sempre più rara nella nostra vita altra, quella “normale”.

E penso alla nostra piccola carovana intenta ad arrivare al mare e a scappare dal mostro meteorologico che negli ultimi giorni si è fatto sempre più minaccioso, giocando con noi come il gatto con il topo. Per tutta la notte sprazzi vigorosi di tempesta spazzano le colline; protetti nel caldo del nostro letto, sentiamo il mostro menare fendenti d’aria e acqua come colpi all’arma bianca. La mattina però sembra essersi placato, anche se il cielo è scuro, pesantemente livido, non piove e noi prepariamo i cavalli per l’ultima tappa verso il mare sperando di trovare là sorte migliore.

Poi una telefonata blocca il nostro slancio, quando ormai siamo pronti a metterci in cammino. Nevio, che è sceso in paese di buon mattino, ci chiama per dirci di stare assolutamente fermi, a valle la situazione è critica, la protezione civile ha bloccato le strade e nessuno può muoversi.
Guardiamo il cielo sopra di noi farsi di piombo, il mostro ci ha raggiunti, ci ha scovati, questo sarà il giorno dell’alluvione in Maremma che oltre all’acqua, al fango e alla paura, farà anche due vittime.

Non sappiamo cosa fare, solo ieri  abbiamo guadato l’Ombrone e la valle dei fiumi gemelli, non oso pensare cosa sarebbe successo se ci fossimo trovati là nella furia delle acque; ce ne stiamo tutto il giorno schiusi nel nostro rifugio a rimuginare, i cavalli sul poggio offrono la groppa al vento e sgranocchiano fieno per scaldarsi. Si fa strada dentro di noi l’idea che la Lungavia sia giunta al termine e che non avremo questa volta portato i nostri omaggi equestri al mare.


Ci sentiamo un po’ delusi e un po’ sollevati quando il grande van di Sciolino apre l’ampia rampa posteriore. I cavalli non fanno storie e si infilano uno dietro l’altro nella caverna metallica, abbiamo giusto il tempo di salutare tutti e siamo già per strada.
Ci rendiamo conto che già non siamo più cavalieri, esploratori, avventurieri, che la Lungavia volge al termine, che da domani si torna “dentro” che la nostra “ora d’aria” è finita!

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La valle dei fiumi gemelli

Difficile dire cosa stia succedendo anche al clima del nostro piccolo pianeta. Fatto sta che quando siamo partiti, per soli due giorni        abbiamo evitato il tornado che ha devastato la Valdinievole e soprattutto Stabbia. I segni della sua furia ci sono stati ben chiari attraversando il bosco di Chiusi e al Lago dei Salici, dell’amico Piero.
Poi, per le tre settimane successive, mentre noi scendevamo questa splendida regione al ritmo degli zoccoli dei nostri cavalli , abbiamo avuto sempre sole, fin troppo caldo e la meravigliosa luce di un autunno ancora acerbo. Il mostro meteorologico ha rivolto altrove le sue mire fameliche e, a Genova, ha digerito la città in una notte, con i suoi succhi melmosi.
Anche la nostra di fortuna stava per cambiare ma noi ancora non lo sapevamo.

 

È una bella giornata quella che si rivelerà essere l’ultima tappa di questo nostro meraviglioso viaggio. Giusto il tempo di constatare che i cavalli questa notte si sono trasformati in roditori bucherellando una decina di rotoballe d’erba medica. Ci assoggettiamo al conseguente conto salato, e ci mettiamo in marcia su per la collina. Fa caldo e la salita lungo la siepe che divide due campi, si fa subito sentire visto che, come d’abitudine, i primi cinque, sei chilometri sono percorsi rigorosamente a piedi. Ormai conosco bene gli intrecci di queste colline e anche se la cartografia di questa parte della Toscana, di cui dispongo, è pessima, con un paio di “fuori pista” azzeccati e lunghe strade poderali asfaltate ma deserte, ci troviamo ad attraversare la valle dei fiumi fratelli, il Trasubbie e il Trasubbino.


Come fosse casa comune i due fratelli liquidi hanno scolpito una valle larga e netta con un’atmosfera unica, adorna di ulivi  in piccoli lembi di terra bonificata, strappati alle pietraie. Una ruga di cemento attraversa la valle a come strada. È agibile solo con l’acqua bassa, ma quando la tempesta inebria i due gemelli, essi l’inondano con potenza inaudita e strappano la crosta di cemento dal loro letto di ghiaia. L’atmosfera è surreale.

Ci inerpichiamo fino a Polveraia, piccolo borgo che presiede la valle, imbacuccata nella macchia che si fa sempre più mediterranea, il mare ormai è veramente vicino, possiamo respirarlo con il verde della campagna.


Scambiamo quattro chiacchiere con un vecchio uomo di cavalli che esce di casa sentendoci arrivare dall’unica strada del paese. Indossa pantaloni da equitazione verdi, camicia in tono e mocassini senza  calze, mani piedi e viso ben abbronzati. Ci consiglia una strada sterrata (o “imbrecciata” come dicono da queste parti) molto suggestiva, che va nella nostra direzione e che ci fa sbucare sulla provinciale  di Scansano, dove percorriamo qualche centinaio di metri prima di fermarci a fare il punto della situazione.
S’è fatta l’ora di cercare rifugio e i chilometri percorsi fanno pari con la tappa di ieri snervante ma corta. C’è il cartello di un agriturismo che invita a prendere una sterrata sulla sinistra. Una “verginina” sotto un grande albero ne segna l’inizio. Stride, nel quadretto dipinto dalla luce pomeridiana, uno sgangherato divano in finta pelle marrone, abbandonato accanto ai cassonetti proprio sotto all’indirizzo e al numero della discarica locale.
Quasi a sancire questo ridicolo teatrino dell’antitesi, mi siedo per telefonare sul sofà sbudellato accanto cassonetti, mentre due passi più in là Marlene, esile e bionda come un’elfa silvana, tre cavalli da          viaggio e una canina coraggiosa sembrano usciti da un romanzo d’avventura.
Al telefono mi risponde Vito, è molto gentile e mi consiglia di fermarci da Baticci, un’azienda zootecnica un paio di chilometri più sù. Detto fatto ci incamminiamo e, dopo poco, i recinti per le pecore e le mucche che appaiono lungo la strada, sono la promessa di un’altra notte al sicuro per i nostri cavalli.
Quando finalmente arriviamo all’azienda, anche Vito è salito ad incontrarci mentre i padroni di casa stanno partendo per una “cercatina di funghi”, che scopriremo poi essere, la grande passione del figlio Simone.

 

 

 

Il Guado dell’Ombrone

Campagnatico è un paesino suggestivo e accogliente, appollaiato sulle ultime propaggini del Monte Amiata. Da qualche collina più in là, nelle giornate di cielo terso, si vede il mare.
Spossati dalla terribile tappa sull’asfalto, ci fermiamo con i cavalli in una piazzetta a terrazza proprio all’ingresso del paese; Marlene seduta sul muretto tiene i cavalli visibilmente stanchi, mentre io cerco ospitalità. Dopo solo poche domande alla solita piccola combriccola di curiosi qualcuno fa il nome di Corrado, uomo di cavalli di queste terre, che si rivelerà il nostro angelo custode. Arriva con un grosso pickup, jeans, stivali e coltello alla cintura, tradiscono la sua filosofia western. Stringe le nostre mani e in quattro e quattr’otto sistema i nostri animali in un meraviglioso pascolo già ben recintato che occupa il dolce declivio di una collina tempestata di ulivi; a fondovalle un bel lago impreziosisce la vista. Gli umani invece si consolano prendendo alloggio a villa Bellaria, elegante e discreta, come una vera signora, fra le case del paese.

 

Guardo e riguardo la mappa ma, comunque la giri, non vedo scappatoie dalla infernale statale e dai suoi camion di ghiaia. Nessun sentiero segnato, nessuna alternativa all’asfalto e soprattutto l’Ombrone, come il fossato di una prigione, come ultima frontiera ci intrappola fra questi pendii. Eppure le colline tutte intorno al paese sono così dolci, così invitanti di campi e uliveti.
Cominciamo a parlare con tutti, sindaco compreso, ci sarà pur un modo di evadere di qui. Le nostre gambe sono molli e la testa piena di ansie,  i giorni che passano non ci rilassano ma aumentano
la nostra sensazione di claustrofobia.
Poi Corrado e il cugino Ezio,  ci portano in perlustrazione e
ci insegnano una serie di contorte scorciatoie fra i campi per evitare il più possibile la provinciale. Non ci sono più scuse dobbiamo ripartire.

Quando finalmete i cavalli sono pronti, io già mi sento liberato. Marlene è ancora un po nervosa, il grande biscione d’acqua più a valle, liquido e scuro, non la fa stare tranquilla. Siamo concentrati, e dopo due ore di freestyle fra i campi, l’ultima vera fatica della Lungavia si srotola davanti agli zoccoli dei nostri cavalli, nero come il suo nome lascia presagire, serpentino fra le rocce e le pietraie.
Il punto è molto favorevole al guado, qualche decina di metri
in apnea senza sapere dove si mettono i piedi, poi decido di passare
davanti con Pioggia. La cavalla batte l’acqua con gli anteriori, vuole sapere cosa c’è sotto alla pelle umida del fiume. Guardo l’altra sponda come in trance, punto un grosso masso che affiora e la comitiva si incammina. L’Ombrone ci lascia passare senza far storie, dopo tre settimane di viaggio ne abbiamo conquistato il diritto.

Percorriamo il resto della breve tappa fra i campi alluvionali, polmoni dell’animale d’acqua, che operosi trattori pettinano in larghi andirivieni, poi incrociamo un ragazzo sul suo mastodontico mezzo agricolo. Marlene ed io ci guardiamo pensando entrambi alla classica ramanzina del contadino che sente oltraggiato il suo campo dal nostro passare ed invece Claudio scende, ci saluta e ci stringe la mano cordialmente. È magro e sorridente, una serie di collanine e monili gli cingono il collo. La sua famiglia ha un’azienda più avanti, ennesimo segno del destino, sarà la nostra tana stanotte.
La tappa questa volta ha provato più i nostri nervi che le nostre gambe e anche oggi dormiremo protetti fra mura amiche.

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Monte antico – Campagnatico

Il programma iniziale era quello di scendere al mare per le dolci pendici del monte Amiata,  passando da Roccalbenga, Scansano, Magliano fino al parco dell’Uccellina. Invece mi lascio convincere da Giuliano, fattore del castello e cacciatore, di puntare dritti a        Paganico e accorciare così di due tappe.
Il prezzo da pagare per la velocità però (ormai avrei dovuto saperlo) è stato alto!

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Il nuovo percorso prevede dodici chilometri di asfalto e quindi a piedi, su di una piccola provinciale, a dire il vero poco trafficata.
Un paio di chilometri prima del paese la strada si immette sulla provinciale del Cipressino che unisce Grosseto al monte Amiata.
Qui la situazione cambia radicalmente, il traffico si fa denso,     rumoroso e stressante.  Una serie di camion di varie dimensioni sfrecciano e sbuffano accanto alla nostra piccola e indifesa comitiva. Ogni passo si fa più pesante, la tensione sale, anche perché Amelie, che fino ad oggi non aveva fatto una piega su qualunque strada, ha paura, strattona e scatta ad ogni passaggio di mezzi pesanti. È  nervosa e contagia il resto del gruppo.

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Ormai quasi a Paganico, dopo due chilometri di sudori freddi, ci resta solo da attraversare il ponte sull’Ombrone, oltre il ponte, una grande rotonda ci segnala l’entrata del paese.
Imbocchiamo la trappola d’asfalto sospesa sulle acque. Marlene Morgan e Nina al guinzaglio aprono la via, noi, il grosso dell’artiglieria, li seguiamo da vicino. Fatti pochi metri un imponente camion, rosso come l’inferno, sopraggiunge alle nostre spalle. Sbuffa e sibila, ansima come un mostro antico, le cavalle non ce la fanno più e scattano in avanti in fuga, in cerca di salvezza. Le lunghine tirano, strappano, con tutte le mie forze cerco di trattenerle e non travolgere il gruppetto davanti, ma sembra inutile, le bestie mi trascinano come fossi un fuscello.
Voglio toglierci alla svelta dagli impicci del ponte ma un altro bisonte a ruote ci viene incontro stringendoci nuovamente in una morsa di paura e sudore. Pioggia, con la sua mole affannata, spinge Morgan contro il guardrail,  Nina si trova fra una selva di zoccoli ferrati e noi nel mezzo cerchiamo con tutte le forze di rimanere in piedi.
Quando finalmente passiamo oltre ci fermiamo un attimo sulla grande rotonda erbosa, ancora intrappolati da strade trafficate.
Il sudore mi gocciola dalla fronte sugli occhiali, l’adrenalina mi offusca la vista ma anche questa volta è andata bene.
Prendiamo la strada che entra in Paganico (antica dogana e centro di scambi fra Siena e Grosseto) e ci inerpichiamo per uno stradello che taglia la campagna. Le gambe ci tremano ancora quando rimontiamo  a cavallo. Sulla carta vedo solo sentieri tranquilli fino a                        Campagnatico dove ci fermeremo per la notte.
Ma ancora la giornata ha in serbo per noi spiacevoli sorprese.

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Ci inerpichiamo senza incrociare un’anima fino quasi al paese, il sentiero sbuca un paio di chilometri più sotto, la strada sembra tranquilla, siamo stanchi ma  scegliamo di camminare, Nina al guinzaglio. Fatte due curve un bilico carico di ghiaia incrocia la già provata comitiva, la strada è piccola e il mastodonte la occupa quasi per intero, ci supera e il suo passare scalda e appesta di gasolio l’aria, i     cavalli fremono noi abbiamo i nervi a a fior di pelle. Pochi pesanti passi più sù e un altro bilico  ci viene incontro e poi un altro e un altro ancora, in poco meno di due chilometri ne passamo moltissimi e ogni volta tratteniamo il fiato.
Quando ormai sono in vista i tetti delle case di Campagnatico, l’ennesimo mostro gommato ci coglie alle spalle. Pioggia non resiste più e con un colpo di reni si libera dalla mia presa. La lunghina è una lama di coltello fra le mie dita, stringo più forte ma non riesco a fermarla, presa dal terrore fa tre, quattro passi indietro e si ritrova in mezzo alla carreggiata. Marlene emette un sibilo di angoscia, la scena è drammatica, l’autista del bilico si rende conto all’ultimo che deve rallentare e il suo volto è attonito mentre passa rasente al posteriore della giumenta, senza toccarla.
Solo una curva e siamo in paese, sani salvi e terrorizzati.

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La gente del posto ci dice che più giù c’è una miniera di ghiaia che i camionisti trasportano facendo la spola verso Grosseto. Per tutto il giorno e tutti i giorni un esercito di bilici marcia sulla quiete di queste colline, i paesani  malsopportano e sono molto infastiditi dal via vai che durerà fino al compimento dei lavori della Siena-Grosseto. La strada, ci dicono, è pericolosa da percorrere anche in macchina o con i trattori che qui tutti usano abitualmente.
Ecco che la Lungavia presenta il suo conto di paura e sudore su di una tappa che sulla carta doveva essere semplice e farci risparmiare tempo.
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Casabianca – Monte Antico

E così ci rimettiamo in cammino destinazione Monte Antico. Ripeto nella mente la mia piccola preghiera al Signore dei viaggiatori a cavallo, che vegli su di noi in questa giornata.

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Camminiamo spediti per le strade bianche della proprietà, mi sento come Bilbo quando esce dalla sua amata Contea.
La ferratura dà i suoi frutti, ce ne accorgiamo  sin dai primi chilometri, così percorriamo spediti uno dei curatissimi  vigneti fino a scendere in una valletta boscosa, chiusa come uno scrigno a protezione del Merse allegro fiumiciattolo pietroso che poco più in là andrà a dare il suo contributo all’Ombrone.
Dobbiamo guadare, sull’altra sponda si snoda promettente il nostro sentiero.

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È un’emozione forte, come tutte le volte che si guada a cavallo.
Si attraversa una frontiera liquida e quando siamo di là siamo diversi. Tutte le volte.
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La tappa è molto bella perché corre sulle dolci colline della valle dell’Ombrone, campi coltivati, piccole macchie boscose, e laggiù il biscione d’acqua languido di curve. Poi la salita si fa più impegnativa e si imbocca uno stradino d’asfalto.
Arriviamo a Monte Antico dove il castello la fa da padrone incastonato sul colle, con le sue mura e la sua vista a tutto tondo.