Equitando: Campi Estivi 2018

La nostra idea di settimana equestre per i ragazzi parte dal loro bisogno di libertà e natura, svincolati dai doveri quotidiani, responsabili di sé e del proprio cavallo.

I Cavalieri monteranno le tende nei campi dell’ Agriturismo Il  Bottaccino e prepareranno con cura l’accampamento, per dormire sotto le stelle, cullati dal ritmico masticare dei cavalli.
La giornata comincia presto per sfruttare il fresco del mattino: piccoli lavori di scuderia, grooming e poi tutti in sella, in campo o in passeggiata.
A mezzogiorno, al gran caldo, riposo per cavalli e Cavalieri, è tempo di rifocillarsi all’ombra del glicine, con chiacchiere equestri, confronti fra i ragazzi, e per rimpinguare il bagaglio culturale dei nostri piccoli Cavalleggeri prima di… giochi e spruzzi in piscina!

Il pomeriggio continua in sella per rivedere il lavoro del mattino e allenarsi per lo spettacolino da presentare a fine settimana ai genitori.
Così lo scopo a livello tecnico è anche occasione per far festa!
Dopo una così densa giornata, cena e a letto presto stanchi ed emozionati.
Alla fine di questa magica settimana, nessuno vorrà più lasciare il suo cavallo e il suo posticino sotto le stelle

  • Staff composto da 1 istruttore 2 formatori
  • Gruppi composti da 6 a 12 ragazzi
  • 2 livelli per invogliare i principianti e far evolvere gli esperti
  • 5 ore di corso tutti i giorni
  • 1 ora di teoria equestre
  • Piscina e giochi
  • Tutto il necessario per il bivacco messo a disposizione dal Centro
  • Particolare cura nell’alimentazione dei giovani cavalieri
  • Reportage fotografico della settimana
  • Spettacolo equestre con aperitivo per genitori e amici

25 – 30 Giugno

02 – 07 Luglio

16 – 21 Luglio

23 – 27 Luglio

30 – 04 Agosto

Per info e prenotazioni contattare Riccardo al                              +39 347 0706239 oppure gentedicavalli@gmail.com

La Progressione degli Aiuti

Vorrei innanzitutto portare l’attenzione dei cavalieri all’utilizzo della parola “aiuto” che i grandi maestri nella storia hanno usato per definire quella complessa sequenza meccanio-posturale-energetica che l’uomo mette in atto nella comunicazione con il proprio cavallo.

I maestri non hanno parlato di ordini o comandi da impartire,  nemmeno possiamo pensare che usassero le parole in maniera superficiale come tendiamo a fare oggi noi. Quindi il cavaliere deve aiutare, ovvero mettere nelle migliori condizioni possibili, coadiuvare il suo cavallo nella esecuzione della performance equestre. Troppo spesso l’uomo con la sua goffaggine culturale e posturale non aiuta, creando piuttosto una serie di problemi al cavallo che si ripercuotono sull’armonia del gesto e portano problematiche anche serie sul piano sia psichico che fisico all’animale.

Montare in maniera consapevole è un dovere prima di tutto etico nei riguardi dei nostri nobili compagni di viaggio.

Lo scopo dell’uomo di cavalli è quello di sensibilizzare il proprio compagno all’arte della comunicazione sottile, facendosi strumento nella magica transazione fra due esseri viventi.

Il procedimento è analogico ovvero si applica in infinite sfumature ascendenti e discendenti guidati da quello che i maestri chiamavano “tatto equestre”.

Fase 1: la fase Meccanica di Spinta.

Nel riscaldamento, nell’addestramento, nella rimonta, nella richiesta perentoria in caso di pericolo, la progressione degli aiuti parte da una fase meccanica e potentemente posturale. E’ l’inizio del lavoro, dove il corpo, il peso, la materialità la fanno da padroni. Il cavaliere è potente nella sua richiesta posturale; è un massofisioterapista: flette, spinge, ammorbidisce e modella il suo cavallo fisicamente e mentalmente. L’assetto è perentorio ed il peso del cavaliere lo aiuta, la spinta è profonda e isometrica, il tempo ritmo dell’equitazione è lento. Solo in caso di necessità il cavaliere può servirsi di un ritmo più cadenzato, più elettrico, soprattutto con alcuni tipi di cavalli che tendano a “coccolarsi” nel forte e profondo abbraccio degli aiuti di spinta. Questa è una fase che potremmo definire intrisa di energia maschile, paterna.

Fase 2: Assetto Posturale.

Quando il livello di transazione sale ed il cavallo ed il suo cavaliere si ammorbidiscono, passeremo in maniera analogica ad una fase meno potente, meno profonda; la comunicazione si fa più fine, accennata, sensibile, come due partners che si capiscono con uno sguardo. Il cavaliere esibirà un assetto posturale, disegnando con il corpo le figure che vuole richiedere, la spinta si farà sempre più accennata rimanendo isometrica, all’occorrenza più ritmata, ma con il chiaro intento di procedere verso una transazione sottile, invisibile, metafisica. Questa è una fase più elegante i cui connotati energetici hanno tinte femminili, materne; questa è una fase che potremmo definire già più equestre.

Fase 3: Ideosensazione.

La comunicazione si fa talmente sottile da diventare solo interiore, gli aiuti sono “pensati” dal cavaliere che focalizza la sua energia interiore affinché, attraverso la transazione, si faccia figura equestre.

Per capire questo punto proponiamo un’esperienza semplice e comprensibile. Con-centrandoci, focalizziamo la nostra attenzione nel centro della nostra mano aperta, ben presto cominceremo a sentire una sensazione di calore, un formicolio, una vibrazione, mente e corpo sono ora intimamente legati. Questo è ciò che avviene nella comunicazione ideosensazionale, cavallo e cavaliere sono legati da una invisibile comunione d’intenti, non vi sono forzature ne dissonanze, le figure emergono all’unisono, il binomio si fa musicale. Questa è la fase propriamente equestre il tempo-ritmo è sinfonico, la connotazione energetica è di sintesi fra maschile e femminile.

Riccardo Maria Bruno

*  *  *

Chiunque fosse interessato a questi temi e volesse approfondirli sono sempre a disposizione scrivendo a gentedicavalli@gmail.com.

(Riccardo e Hispalis, “Spettacolo di Fuoco e Fiamme”, Capodanno 2017)

Intervista con lo Sciamano

Fin da bambino ho sempre avuto un rapporto particolare con la febbre. Quando vivevamo in Africa per ben cinque volte presi la malaria unico della famiglia come se la febbre venisse a cercare proprio me… Ricordo la faccia stravolta di mia madre mentre guardava il termometro riempirsidi mercurio fino in cima, dopo i 42 gradi ribaltavo gli occhi e venivo immerso per intero nella vasca da bagno di casa colma d’acqua fredda.

Con 40 di febbre stavo bene, gli occhi scintillanti e la mente sgombra, mi sentivo come sotto l’effetto di una droga potente e sconosciuta, le mie vene erano  torrenti di lava fusa e i miei pensieri, liberi dalla materia, si facevano sottili e imprevedibili. L’anima nera dell’Africa profonda ardeva nel mio giovane corpo. Quando mi capitava di essere preda del delirio era come se non fossi più presente, come se l’anima uscisse dal corpo rovente, per lo sbigottimento di mamma al mio capezzale.

La malaria presa in Africa per un bianco non é quasi mai cosa pericolosa, abbiamo clorochina e chinino e spesso si tratta di qualche giorno a letto con gli stessi sintomi di una forte influenza. A me la malaria aveva lasciato una sensibilità e una sopportazione eccezionali per le alte temperature nonché alcune esperienze alle quali, essendo stato all’epoca poco più che bambino, non avrei saputo che nome dare.

Da più grande mi resi conto che gli episodi febbrili erano momenti eletti dell’esistenza, spazi asestanti nel normale fluire vitale, voragini d’assenza lucida, occasioni di contatto con mondi invisibili agli occhi quotidiani. Non mi vergogno a dire che cercavo la febbre ma ogni volta, quando il momento si faceva propizio, era lei a trovare me.

Dietro il cristallo del camion il sole novembrino del deserto amplificava i suoi raggi come dietro ad una lente d’ingrandimento. Per tutto il giorno avevamo combattuto con le salite e le discese di una montagna decisa a non lasciar spazio all’orizzonte, dopo dieci ore di guida la valle del Ziz apparve come una profonda ruga verde e sinuosa sulla faccia scarna del deserto.

Trovammo rifugio fra le palme, nel cortile di una piccola casa per metà ancora di fango, un alto muro screpolato la separava dalla strada, dal lato opposto un giardino con ceste di fichi datteri appesi come gocce succulente, piccoli orti umidi e odorosi, rigagnoli d’acqua festosi, ed un asino scalcinato certo più fortunato di quelli che pascolano la polvere del deserto.

La sera venne rapide sulla nostra stanchezza, il padrone di casa era nero come la notte, i sui denti gioviali scintillavano fra un sorriso e un francese stentato, ci offri il thé che bevvemmo seduti su sudice sedie di plastica bianche mentre la testa già mi pareva leggera, troppo leggera, mi vidi riflesso negli occhi antigravitazionali di Marlene e fui costretto da un brivido profondo a mettermi a letto.

Il camper era caldissimo ma io tremavo come una foglia, la notte era un buco nero, le stelle scintillavano senza pudore, il deserto si richiudeva su di noi con enormi fauci di pietra, la febbre mi ringhiva addosso come un cane feroce poi alle tre esatte del mattino lo vidi. Era un uomo di una vecchiaia indefinibile, senza tempo, appena cominciò a parlare io smisi di tremare e la sua voce mi parve familiare.
  – Ti sei preso il mal d’Africa figlio mio, lo prendono tutti quelli che vengono in questa terra senza aver lasciato ciò che avevamo in quell’altra, tutti quelli che viaggiano troppo pesanti…
Parlava adagio in una lingua sconosciuta ma che capivo benissimo e anche il senso delle sue parole era chiaro come se sapessi esattamente a cosa si stesse riferendo.
Mi raccontò la storia della mia vita, mi disse che non era la prima volta che ci incontravamo e che da bambino lo visitavo spesso, mi raccontò la storia degli uomini sul nostro pianeta e mi parve uguale alla mia, così non fui più capace a distinguere i soggetti del racconto, le sue fasi temporali il chi e il quando dei fatti, tutto si era fatto fluido interconnesso, continuo.
Poi il mio corpo ebbe una scossa potente di febbre che mi riporto nel camper, per un attimo vidi il volto stravolto di Marlene e mi preoccupai moltissimo, pensai che stesse guardando il mio corpo morto.
  – Ti prego aiutami! – ansimai allora rivolto allo shamano.
  Il vecchio mi si fece vicinissimo
  – Ora ti darò una ricetta che dovrai seguire scrupolosamente, comincia con un digiuno di quaranta giorni e durante questo digiuno…..
Cominciò a dettarmi un protocollo complicato di tisane, decotti e pratiche per ogni giorno del lungo difiuno, poi ripeteva
  – fai tutto esattamente come ti dico! Mi racconti altrimenti non ti sveglerai! –

Ero teso e ansioso, dovevo ricordarmi un mucchio di pratiche e preparazioni a orari ben precisi: la coda cavallina, il fieno greco, gli impacchi di argilla, il kefir, non conoscevo nulla di tutto ciò e le convulsioni mi presero nuovamente.

Sentii allora una voce lontana, come quelle che senti giù in strada quando nelle torride notti d’estate dormi con le finestre aperte, una voce dolce ma nello stesso tempo insistente – Amore svegliati, ti prego svegliati! – Aprìi gli occhi e incontrai il viso stremato di Marlene, fuori dal camper albeggiava, ero tornato, della febbre che per tutta notte mi aveva scosso come un fuscello neanche l’ombra, ero tornato ma n CZon avevo fatto in tempo a ricevere l’intera ricetta, guardai nuovamente Marlene ero furioso, le dissi stizzito che avrei dovito riaddormentarmi, che avevo perso l’ultima e più importante parte della ricetta, che non avrei mai più avuto l’occasione di conoscere; lei mi abbracciò, noncurante delle mie rimostranze mi baciò con dolcezza –  me non importa amore mio, non mi importa dove tu sia stato questa notte, a me importa solo che tu ora sia tornato qui ho avuto una fottuta paura di perderti! –

Riccardo Maria Bruno

Un amore difficile

La Lombardia e’ una regione stuprata, una terra di nessuno, un’enorme crosta di cemento e cavi dell’alta tensione. Nessuno più posa i piedi su questa terra, la si attraversa solo su gomma passando da un carcere di luci al neon ad un loculo con letto e bagno, questa terra non è più terra, non appartiene più al cuore di nessuno e per uniformarsi diventa grigia come l’asfalto, anche il cielo è una cappa di piombo fuso.

Grazia è  innamorata  del suo cavallone tedesco, gigante ed emotivo almeno quanto lei. Sono abbandonati in questo costoso carcere di periferia, entrambi vedono la luce nel breve tratto fra il maneggio coperto e la scuderia, il loro è un matrimonio infelice dove la voglia di stare insieme e’ soffocata dalle incomprensioni e da un ambiente sterile per l’amore: le sbarre di un box, il buio di un capannone, una ruota che gira dove il cavallo criceto inebetisce gli arti e la mente. A nessuno conviene vederli, il loro doloroso rapporto è invisibile, nessuno li aiuta, la loro felicità non è redditizia.

Allora Grazia monta il suo enorme criceto sauro attaccata alle redini come se non ci fosse un domani, rannicchiata come se un pericolo spaventoso volesse strapparle il cuore, ad ogni battuta di trotto un piccolo pezzo di cuore, mentre tutto intorno esplode la guerra. Il gigante ha paura di cadere in avanti, ha paura di cadere per sempre, anche lui ha un nobile cuore da proteggere, nessuno dei due respira come se il dramma fosse imminente ed in apnea non si può far binomio.

Arriva un piccolo uomo da lontano, come tutti ha attraversato la terra sulla sua scatoletta a motore; la tangenziale e’ una discarica a cielo aperto, per arrivare al maneggio si fa slalom fra il pattume e le nutrie morte, sembra di attraversare la fine del mondo quando la guerra ci inghiottirà tutti.
La compagna dello straniero ha occhi e stivali grandi, si tengono per mano, a loro piace vedere non guardare e questo amore disperato balza subito agli occhi. Allora l’omino, incurante del bombardamento, si posiziona al centro del rettangolo (la sabbia le pareti e il soffitto sono grigio scuro) tiene in mano un frustino con l’anima d’argento ne è geloso come se fosse il custode di tutti i suoi segreti.

“Pensa al centro del tuo corpo, espandilo come se questo spazio non avesse pareti, lascia che il tuo calore attraversi il tuo cavallo, dai fiducia al vostro amore, lascia andare le redini!”.

Grazia sente di potersi lasciare andare (quel frustino d’argento é una bacchetta magica e le parole dell’omino un sortilegio) allora schiude le spalle, allunga le gambe fuori dalle staffe, solleva lo sguardo, apre il suo corpo come se sotto quelle lamiere fosse arrivata la primavera, percepisce di star respirando e un sorriso proveniente da chissà quale profondità le illumina il viso mentre il dolcissimo gigante sauro comincia a masticare.

Riccardo M. Bruno

Etica dell’allevamento equino e umano

Ogni società presuppone un compromesso, l’individuo sacrifica la sua libertà personale in cambio di benefici non ottenibili in una vita condotta in solitario. Ognuno di noi ha esperienza delle regole restrittive che il vivere comune ci impone per il fine ultimo della sopravvivenza e del benessere collettivo, ognuno di noi ha ben chiaro quanto sia delicato questo equilibrio di dare avere ed ogni individuo sente quanto una collettività etica e  dignitosa possa giovare al singolo nel suo percorso evolutivo che difficilmente sarebbe ottenibile vivendo un’esistenza decontestualizzata.

Quando un qualunque essere (umano o animale) entra in contatto con un essere più evoluto le possibilità sono due o ne trarrà giovamento o verrà sfruttato. E’ ciò che molto naturalmente succede fra il bimbo e la sua mamma, fra fratelli maggiori e minori, fra l’insegnate e l’allievo, fra i maestro e il discepolo, ma anche fra l’uomo e il suo cavallo.

Quando decidemmo di togliere i cavalli dal loro stato naturale per allevarli e sfruttarne la devastante forza e velocità in cambio di protezione cibo e cure, stipulammo con loro lo stesso patto etico che avrebbe dovuto contraddistinguere anche la nostra di società, quella umana. Privandoli di un bene così prezioso come la libertà e chiedendogli lavoro e fatica a nostro beneficio avremmo dovuto almeno pareggiare la bilancia con un tesoro di altrettanto valore.

É andata davvero così?

Come avrebbe mai potuto esserlo se per primi noi umani, esattamente come i nostri cavalli, siamo relegati in stretti box di cemento, con le grate alle finestre, divisi gli uni dagli altri, malnutriti, ridicolmente agghindati alla moda, con dei pezzi di ferro inchiodati ai piedi, costretti sempre al solito percorso box/lavoro, spendendo le nostre vite e le nostre forze in attività alienanti che poco hanno a che fare con il primigenio etico contratto dove un essere più semplice evolve e si migliora grazie ad una società giusta che in cambio di poco restituisce con gli interessi.
E così alleviamo i nostri cavalli come alleviamo i nostri figli, antropomorfizzando i primi e viziando i secondi, senza alcuna riflessione ci affidiamo pigramente a ciò che si dice, alle consuetudini consolidate, ai dettami della pratica comune, acriticamente, superficialmente.
Ecco perché le nostre scuderie sembrano dei lager, i nostri cavalli sono problematici e muoiono malaticci a vent’anni quando ne potrebbero vivere ben sani quaranta.

Box, mangimi e ferratura sono le piaghe dell’allevamento moderno del cavallo e tutto ciò è dimostrato scientificamente ormai da più di trent’anni.

Vi è un altro aspetto, forse ancor più significativo, che ogni uomo che decide di stare con questi nobili animali dovrebbe attentamente considerare.
Oggi si tende a pensare che naturale sia sinonimo di migliore. Questo è vero solo in minima parte.
Un cavallo che pascola sereno, in compagnia dei sui simili, nella sua postura riposata e naturale avrà il peso della sua imponente massa per lo più sugli anteriori; il lungo dorsale disteso, lo splenio proteso in avanti nell’atto del brucare, la forza motrice dei posteriori quasi assente: i cavalli al prato deambulano tirandosi con gli anteriori, non spingendosi con i posteriori.
Un cavallo montato in questa sua postura naturale sarà un cavallo sulle spalle, orizzontale, direzionale e generalmente pesante sulla mano. La sua schiena e la sua incollatura svilupperanno una muscolatura rigida atta a compensare il continuo squilibrio in avanti nonché il peso del cavaliere. Sarà un animale destinato prima o poi a patologie muscolo scheletriche in alcuni casi anche gravi.
Anche il giovane bipede della razza umana nella sua posa decontratta e naturale, magari camminando sulla spiaggia in compagnia dei suoi simili, ciondola squilibrato in avanti, le spalle curve, il bacino retroflesso a volte molto distante dalla grazia della posizione eretta.
Poi al prato e sul bagno asciuga qualcosa succede, passa una giovane femmina dalle forme sinuose e la criniera al vento, entrambi bipedi e quadrupedi si trasformano, il petto si gonfia, le spalle si aprono, il bacino si ingaggia, gli addominali si tirano, l’incollatura si rileva e si incurva, le orecchie si tendono e gli occhi scintillano, i gesti si fanno ora coerenti armonici competitivi, carichi di energia ed equilibrio, un equilibrio che è sempre naturale ma ora è più netto, più significativo, più appariscente, più performante.

E’ in questo tipo di postura che il maestro monta il suo cavallo, è questo equilibrio verticale lo scopo ultimo dell’addestramento ed è nel raggiungimento di questo stato in maniera volontaria, continuativa e cosciente e non aleatoria e contestuale da parte del cavallo che risiede la chiave etica dell’equitazione.

Il maestro evolve dallo stadio di natura allo stadio di sapienza il suo destriero, liberando e portando alla coscienza la sua parte più nobile, pareggiando i conti.
Una equitazione incosciente, superficiale, ignorante, anche in buona fede e peggio ancora se praticata in maniera spocchiosa ed arrogante, diventa IL problema morale urgente con il quale ogni cavaliere dovrebbe seriamente fare i conti.

Riccardo Maria Bruno

(Bleeding – Barbara Fedeli – acrilico su carta – 70×50)

Cavalli a piedi nudi… F.A.Q.

Il mondo dell’equitazione è pieno zeppo di preconcetti che spesso allontanano, anche il cavaliere  più in buona fede, dalla verità e dal benessere per il proprio cavallo.

Caso emblematico è il barefoot o “piede nudo”, pratica denigrata e tacciata come pericolosa dalla maggior parte degli addetti ai lavori, proprietari e cavalieri in genere, nonostante le sua piena validità scientifica sia stata dimostrata ormai da quasi trent’anni.

Così ho pensato ad un immaginario dialogo fra un ingenuo cavaliere in erba ed il suo istruttore esperto di cavalli a piedi nudi, cercando di rispondere alle domande più frequenti su questo mondo ancora troppo sconosciuto:

 

(Giovane Cavaliere) Ma senza i ferri non si consumano troppo gli zoccoli? non gli farà male?

(Istruttore) I cavalli in natura percorrono scalzi su terreni vari e accidentati una media di trenta chilometri al giorno, per mangiare, trovare l’acqua e giocare. Conosco pochi cavalli di scuderia che possano vantare una media di quasi mille chilometri al mese!! Il problema è piuttosto il contrario, i nostri cavalli non camminano a sufficienza per limarsi naturalmente gli zoccoli, ecco perché si richiede l’intervento del pareggiatore per riprodurre artificialmente la normale usura dello zoccolo.

(Giovane Cavaliere) Certo, ma in natura i cavalli non portano mica il peso aggiuntivo del cavaliere!!!

(Istruttore) Capisco la tua osservazione ma ti invito a riflettere che le cavalle durante gli undici mesi di gravidanza portano il peso di un puledro che può arrivare fino a cento chili e non mi sembra che si mettano in poltrona a lagnarsi! In più vorrei farti notare che nel periodo fertile le giumente sono gravide ogni anno.

(Giovane Cavaliere) Ok ma quando si va sull’asfalto?? Certo non ci sono strade asfaltate in natura!

(Istruttore) E’ vero! Ma chiunque abbia avuto anche una piccola esperienza con cavalli scalzi ti dirà che sul cemento i nostri destrieri non scivolano e grazie al terreno piatto e abrasivo si consumano meglio le unghie. Sono piuttosto le pietraie a mettere più alla prova i piedini dei nostri amici!!!

(Giovane Cavaliere) Ho capito, ma tu puoi tenere i tuoi cavalli scalzi perché vivi in un territorio prevalentemente erboso e le passeggiate che fate sono su soffici campi e argini!

(Istruttore) E invece i terreni troppo morbidi sono un vero problema per la performance dei piedi dei mie cavalli. Sarebbe molto meglio avere terreni vari con terra erba e pietre un po’ come succede in montagna!! Terreni morbidi rendono i piedi morbidi mentre terreni duri rendono i piedi solidi come la roccia. Ecco perché ho cercato nel mio allevamento degli escamotage come ad esempio un fondo duro dove i cavalli stazionano più tempo per mangiare e quando usciamo in passeggiata cerchiamo il più possibile di farli camminare sul duro!

(Giovane Cavaliere) Si si, tutto quello che mi dici ha un senso, ma io l’ho visto un cavallo che perde un ferro e fidati non sembrava gradire anzi era proprio zoppo!

(Istruttore) E’ vero, sferrare un cavallo  ferrato da lungo tempo non è una procedura che va presa sotto gamba o che si può improvvisare. Esiste un periodo detto di transizione che può essere anche molto lungo a seconda del cavallo nel quale il piede necrotizzato e fragilizzato dalla ferratura deve tornare alla sua originaria solidità. E’ esattamente come se tu ti togliessi ora le scarpe e pretendessi di correre sulla ghiaia, sembreresti il povero cavallo che ha perso i ferri in passeggiata! Ma se ti prendi il tempo di abituare i piedi molto più velocemente di quello che pensi potresti camminare ovunque e senza alcun fastidio!

(Giovane Cavaliere) Ok ma con i cavalli sportivi come la mettiamo?

(Istruttore) Beh, ora che ci siamo detti tutte queste cose, questa domanda si risponde da sola. I cavalli sportivi lavorano prevalentemente su sabbia e a volte sull’erba. Il massimo del tragitto che fanno è box rettangolo, rettangolo trailer, trailer altro box e altro rettangolo. In questi casi il problema sta proprio nella poca sollecitazione di quei piedi ma soprattutto i vero problemi che affligge i cavalli sportivi e che non gli permette di poter vivere scalzi sono altri ovvero scuderizzazione e alimentazione. Tieni a mente queste due cose importantissime ne riparleremo nella prossima puntata!!

 

Questa è solo il primo ed introduttivo di una serie di articoli che scriverò sul barefoot e su quanto questa pratica sia benefica per i nostri amici cavalli sia sotto l’aspetto fisico/fisiologico che sotto l’aspetto mentale/psicologico. Sentitevi liberi, come il nostro giovane cavaliere di porre domande anche più scottanti di quelle che mi sono immaginato, cercherò nei miei limiti di rispondervi con grande piacere.

Riccardo M. Bruno

 

Cavaliere o Cavalleggero

Scese da cavallo furioso, il piccolo rettangolo in sabbia ricavato sulla sponda verde della collina era stato il ring di un piccolo dramma fra un giovane cavaliere e il suo guizzante stallone arabo grigio di manto. Non si erano capiti, lui costruiva una postura da “spalla in dentro” con il busto leggermente flesso all’interno e le anche mobili dritte sulla pista, mentre il cavallo opponeva resistenza in un misto di fuga e rigidità che poco aveva a che fare con l’equitazione. Quel pomeriggio si erano innervositi più volte nella reciproca incomprensione, nella reciproca indomita, superficiale giovinezza.

– Sono furioso –

Sibilò a denti stretti incrociando lo sguardo del suo maestro mentre tornava cavallo alla mano.

– É colpa sua! Hai visto come non ragionava oggi? Io gli chiedevo le cose ma lui niente o aveva troppa fretta o proprio non mi stava ad ascoltare! –

Carlos li guardava entrambi, splendidi giovani esemplari delle rispettive razze, alle prese con i loro sentieri evolutivi, nello sforzo reciproco di crescita, così come il cosmo dispone.

– Però tu ti sei innervosito per primo –

Disse con voce pacata.

– Sì ma l’hai visto! Lo faceva apposta appena la mia pretesa saliva, lui  si metteva contro, chiunque avrebbe perso la pazienza: lo sai mi piace Ares ma quando fa così lo sbranerei!

Carlos continuò con lo stesso tono di voce come se non lo avesse sentito.

– Finché rimarrai convinto che i tuoi stati d’animo, le tue emozioni, i tuoi pensieri possano essere “colpa” o “merito” di qualcosa o qualcuno vivrai  in preda al sortilegio e non sarai in grado di risvegliarti, ipnotizzato dal pensiero magico che qualcosa all’esterno possa influire sulla tua interiorità. Quando sei convinto che questo avvenga é soltanto perché ciò che si agita fuori rispecchia ciò che si agita dentro di te –

Bruno non capì ciò che il maestro gli aveva detto ma le sue parole lo avevano calmato, pacificato, le dita che stringevano la briglia si erano ammorbidite e il cavallo alle sue spalle con un lungo sospiro abbassò la testa in segno di pace.

– Cosa vuoi dirmi? –

– Voglio dirti che non è mai “colpa” del cavallo, il primo a mettersi in gioco, a prendersi le responsabilità devi essere tu se vuoi diventare “Cavaliere”, fino a quando delegherai la riuscita al solo cavallo resterai sempre e solo un “Cavalleggero” un ippotrasportato della vita –

Ora che il discorso si era fatto  più comprensibile Bruno fu scosso da un brivido: trasportato dalla vita, agito dal cosmo,  guardò allora il suo maestro da sotto le ciglia a metà fra il ringraziamento e la rabbia e sia avviò verso la scuderia con Ares al suo fianco visibilmente compiaciuto.

Riccardo Maria Bruno

Attraverso l’Europa mediterranea

19.10.16

A 70 km all’ora siamo praticamente dei punti fermi sulla carta virtuale del navigatore, l’autostrada é una culla noiosa come la bonaccia quando si é per mare, il sud della Francia é un paradiso di luce rocce e acqua che si srotola fra sbuffi sornioni di nafta, stanotte dormiamo sotto Tarragona, domani si riparte alla conquista della Spagna, l’Africa si avvicina…

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